RAVENNA FESTIVAL / Intervista a Paolo Rumiz | la CRONACA di RAVENNA

RAVENNA FESTIVAL / Intervista a Paolo Rumiz

"Racconto il mito di Europa ambientandolo nel Mediterraneo di oggi. Noi usiamo il mare per la vacanza, ma abbiamo dimenticato il ruolo che abbiamo sempre avuto nella storia, quello di essere il baricentro di un mare unico al mondo"

30 giugno 2020 -

Il mito greco di Europa, l’importanza del Mediterraneo per la nostra storia e la nostra cultura, l’evidente contraddizione con una cronaca che ci parla quotidianamente di barconi, di migranti e di intolleranze. Tutto questo può diventare anche un poema in musica: quanto più intrigante se l’autore è un giornalista come Paolo Rumiz, costante viaggiatore, straordinario cantore del nostro continente e delle commistioni fra oriente e occidente.
Assieme al flautista Fabio Mina, Rumiz farà tappa questa sera allo stadio dei Pini di Cervia per Ravenna Festival, con lo spettacolo “Quell’Europa che viene da Oriente”.


Rumiz, che spettacolo dobbiamo aspettarci?
Da due anni e mezzo, fra continue interruzioni, sto scrivendo un libro in endecasillabi in cui racconto il mito di Europa ambientandolo nel Mediterraneo di oggi. Non è ancora finito: la Pandemia era occasione perfetta per chiuderlo, ma le cose che succedevano erano più importanti, allora ho scritto un altro libro sul pericolo del catastrofismo generalizzato, e spero di pubblicare questo entro il 2020. Ne leggerò comunque molti estratti: col flauto traverso di Fabio Mina che accompagnerà il racconto in modo spontaneo, seguendo il ritmo del verso.

Perché il mito di Europa?
Intanto perché un mito è sempre valido, non muore, si riattualizza con gli eventi. Questo racconta di una principessa libanese, chiamata Europa, che viene rapita da Giove: il re degli Dei si trasforma in come toro bianco mansueto, la fa salire sulle spalle e se la porta a nuoto – un’immagine stupenda - per tre giorni fino a Creta, dove all’ombra di gigantesco albero la possiede, dopo essersi trasformato in aquila.

Cosa ci dice questo mito? Molto più di quanto non dicano la politica, l’economia, la geografia. Ci dice intanto che Europa è una donna, ed è figlia dell’Asia: quindi non esiste frontiera, viviamo nello stesso mondo, l’unico confine è quello occidentale, l’Atlantico. Poi ci dice che questa donna attraversa il Mediterraneo con paura, su un natante pericoloso: quindi è un’antenata di tutte le migranti. Il racconto che ho immaginato io è quello di un quartetto di amici contemporanei, occidentali, che se ne vanno in giro nel Mediterraneo alla ricerca del nome originale della loro terra, che hanno dimenticato. Quando arrivano in Libano, mentre stanno cenando in un bar di Tiro, si accorgono di una ragazzina spaventata, che si ferma davanti alla passerella della barca e chiede di partire con loro. Si chiama Europa: la prendono a bordo, perché vedono segni di sofferenze e violenza, ma anche una grande bellezza e autorevolezza. E durante il viaggio il mito si ripropone, assieme agli incontri che porta il Mediterraneo odierno: da un lato i barconi dei migranti, dall’altro le spiagge del turismo di massa e le navi da crociera…


Il Mediterraneo come patria comune è un concetto caro a una lunghissima tradizione, culturale e storica: basti pensare, anche in tempi recenti, alle opere di Braudel o Matvejevic. Però la cronaca odierna fa pensare che molti italiani non abbiano più questa percezione.

L’invadenza della cultura dell’automobile ha estirpato dagli italiani la percezione di essere una penisola. Noi usiamo il mare per la vacanza, ma abbiamo dimenticato il ruolo che abbiamo sempre avuto nella storia, quello di essere il baricentro di un mare unico al mondo. Si è sviluppata una cultura idrofoba, anche nei confronti dei fiumi: gli italiani hanno paura dell’acqua, la distanza con cui i padani stessi guardano al loro fiume è significativa. Uno dei motivi è che l’acqua è un elemento libero, non può avere reticolati né frontiere. Non è nazionalizzabile, per quanto si tenti di dividerla, e questo dà fastidio a molti.


Ma la storia dovrebbe dirci il contrario…

Quando ho percorso a piedi la via Appia, quella grande diagonale che è il baricentro stesso del Mediterraneo - perché prosegue in Albania, in Grecia e anche oltre - mi sono reso conto del fatto che gli italiani, oggi, non guardano al di là del loro naso. Un abitante di Terracina, nella zona del Circeo, mi diceva che sotto i romani il loro orizzonte era la Libia, l’Algeria: adesso è al massimo Fondi, il comune limitrofo... Alla faccia della globalizzazione, degli aerei e di internet: non siamo più capaci di vedere lontano, ci guardiamo solo l’ombelico. La realtà virtuale ha cancellato quella reale. E pochi, per quanto riguarda il Mediterraneo, hanno la sensibilità di guardare all’altra sponda.   Approfondisci qui


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