"Le cose per cui vale la pena vivere", Filippo Nigro apre il Polis Teatro Festival | la CRONACA di RAVENNA

"Le cose per cui vale la pena vivere", Filippo Nigro apre il Polis Teatro Festival

Martedì 3 maggio alle 21 al Teatro Alighieri

03 maggio 2022 - Si intitola “Every brilliant thing (Le cose per cui vale la pena vivere)”, lo spettacolo teatrale che apre domani sera, martedì 3 maggio alle 21, all’Alighieri, il POLIS Teatro Festival, in programma a Ravenna per tutta la settimana.
Giunta alla quinta edizione, la rassegna - con la direzione artistica di Davide Sacco e Agata Tomsi, di ErosAntEros, - assume la nuova veste di festival internazionale di teatro contemporaneo, e vedrà molti eventi dedicati alla nuova scena francese.
Ma lo spettacolo di apertura è invece di scrittura inglese (il testo è di Duncan Macmillan), è una produzione del CSS Teatro stabile di innovazione del FVG - Sardegna Teatro, con impianto scenico e regia di Fabrizio Arcuri. Ed è interpretato da un attore empatico e versatile come Filippo Nigro, noto ai più per i molti ruoli cinematografici (con Ferzan Özpetek ha girato "Le fate ignoranti", "La finestra di fronte", "La dea Fortuna", ma lo ricordiamo anche in un ruolo intenso nella commedia "Diverso da chi?", accanto a Luca Argentero) e televisivi ("Suburra – La serie", in primis).


Filippo, lo spettacolo parte da un tema “forte” come la depressione, ma riesce a farlo in maniera anche leggera, ironica, e comunque delicata. Come ci riesci?
Il punto è proprio che l’ironia sta nella struttura stessa del testo. È la storia di un bambino che scrive una lista delle cose più belle per cui vale la pena vivere da dare alla madre depressa: comincia a 7 anni ma finisce da adulto. E in questo percorso vengo affiancato da personaggi che fanno parte della storia, coinvolgendo il pubblico.

Spiegaci come…
L’incontro col pubblico, l’utilizzo degli spettatori loro malgrado – ma sempre con grande delicatezza – diventa un racconto collettivo da cui emerge qualcosa di molto simile alla vita, anche senza che ci siano stati rapporti con persone depresse. È un testo che porta a riflettere sui tuoi stati d’animo, sulla delicatezza di una vita di una persona e lo scopro anch’io, ogni sera, giocando col pubblico. Del resto, gli anglosassoni sono straordinari nel trattare temi del genere senza scendere nel patetico.

Per affrontare il testo, hai “studiato” la depressione?

Non c’è stato bisogno che mi documentassi; non è uno spaccato sulla depressione, bensì un racconto di formazione, un percorso emotivo di un bambino, il racconto della sua infanzia che viene segnata dal rapporto con la madre depressa per provare a curarla. Che poi porti avanti questa attività fino ai 50 anni, rende la cosa anche divertente. Del resto, almeno una volta ognuno di noi si deve essere sentito depresso.

Il pubblico, quindi, è fondamentale.
Assolutamente. Chi vede lo spettacolo capisce che la sensibilità del testo è davvero assoluta, e ogni volta il pubblico diventa una sorta di gruppo di ascolto. E non importa che lo spettatore conosca questo problema o meno. Di sera in sera, il modo con cui se ne parla è imprevedibile, a volte anche casuale. E per me anche molto arricchente. Si crea una dinamica di gruppo, ti ritrovi a confessarti con persone che potrebbero avere lo stesso problema. C’è un’empatia immediata fra te e gli spettatori.

Un testo del genere ha un impatto ancora maggiore dopo il Covid?

Devo dire il vero: avevo letto il testo prima e non mi aveva suscitato un effetto immediato. Invece, poi l’ho riletto e mi è venuta la voglia assoluta di portarlo in scena. Dopo il Covid ha forse un effetto in più, anche se credo che questo valga per molti spettacoli, perché mette in relazione, in contatto.

Come ti poni di fronte al pubblico per un testo di questo tipo?
Il fatto divertente è che di volta in volta dobbiamo valutare com’è la platea. Vorrei vedere tutti da vicino, in faccia. Spero, paradossalmente, di non avere numeri enormi, per cercare di coinvolgere tutto il pubblico, almeno il più possibile. Anche a Ravenna arrivo prima, voglio vedere bene l’Alighieri, capire come gestire lo spettacolo in un teatro così grande. È una “prima volta” anche per questo.

Rispetto ai ruoli cinematografici e televisivi, come cambia l’approccio quando fai teatro?

Sul palcoscenico il livello di emozione è diverso, c’è sempre qualcosa che può cambiare. La performance dal vivo è particolare in questo: anche se io vivo così anche un set cinematografico, perché comunque hai sempre due-trecento persone che ti guardano, sul set, e che ti ascoltano.
Ho frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia da ragazzo, ma ho fatto sempre anche teatro. Mi tiene alto il livello di curiosità, anche riguardo ai testi da scegliere, e mi dà libertà maggiore su cosa fare rispetto a un film, in cui di solito vieni scelto. Anche questa cosa ha un suo fascino.


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